Come si calcola l’indennità di trasferta e quando è compatibile con i buoni pasto?

Come si calcola l’indennità di trasferta e quando è compatibile con i buoni pasto?

Quando un dipendente o un manager devono recarsi fuori dalla sede di lavoro abituale per motivi di lavoro, ad esempio per incontrare un cliente o partecipare ad una fiera di settore, si parla di trasferta. In questo caso, il datore di lavoro è tenuto a rimborsare, attraverso un’indennità di trasferta, ai lavoratori le spese sostenute per lo spostamento, per i pasti e per l’alloggio, in caso di trasferte di più giorni.

Continua a leggere per scoprire le tipologie di indennità di trasferta, la loro tassazione e la loro compatibilità con altri benefit aziendali come i buoni pasto, in modo da non erogare rimborsi non dovuti o viceversa.

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Quando uno spostamento per lavoro è considerabile trasferta

Con trasferta lavorativa si intende uno spostamento che un dipendente o un dirigente effettua dalla sua sede abituale ad un’altra località per motivi aziendali. Le caratteristiche principali di una trasferta sono la temporaneità e l’attinenza all’attività lavorativa svolta. Le trasferte prevedono che il datore di lavoro rimborsi, attraverso un’indennità di trasferta, le spese sostenute dal lavoratore per pasti, alloggio, mezzi pubblici ecc.

La normativa fiscale e la tassazione associata all’indennità di trasferta varia prima di tutto a seconda della località di destinazione. Per trasferte fatte all’interno del comune della sede di lavoro o per trasferte fuori dal comune della sede di lavoro si applicano imponibili fiscali e previdenziali diversi.

Ad esempio, le spese per la somministrazione di alimenti e bevande sostenute all’interno del comune saranno deducibili al 75%, come prevedere il TUIR, mentre per costi sostenuti fuori del comune della sede di lavoro la deducibilità è al 100%, cioè totale.

Inoltre, i limiti di esenzione per l’indennità di trasferta, quando effettuata fuori dal comune, varia per la tipologia di indennità che si sceglie di erogare. Nei prossimi paragrafi vedremo le 3 principali categorie di indennità di trasferta e rimborso spese.

Tassazione dell’indennità di trasferta per vitto a seconda della tipologia

Quando un dipendente è in trasferta fuori dal comune abituale gli spetta un rimborso spese anche, e soprattutto, per le spese di vitto. L’ammontare dell’indennità, la sua tassazione e le modalità di rimborso variano a seconda della tipologia di indennità di trasferta scelta. Vediamo le tre tipologie più comuni di indennità di trasferta erogabili: rimborso spese a piè di lista, rimborso misto e rimborso forfettario.

Rimborso spese a piè di lista

Il rimborso spese a piè di lista, chiamato anche rimborso analitico, è deducibile dai costi aziendali per un massimo di 180,76€ al giorno in caso di trasferte effettuate sul territorio nazionale, o per un massimo di 258,23€ in caso di trasferte all’esterno.

Rimborso spese misto

Il rimborso spese misto aggiunge, al rimborso analitico per le spese di vito e alloggio, anche un’indennità di trasferta giornaliera pari a 30,99€ in caso riguardi solo il vitto o solo l’alloggio, oppure 15,49€ in caso sia per entrambi. Tale tipologia di indennità è totalmente deducibile dal reddito d’impresa.

Rimborso forfettario

Il rimborso forfettario, o rimborso spese a forfait, prevede che il datore di lavoro eroghi una cifra giornaliera standard al dipendente in trasferta. Tale indennità di trasferta è esente da tasse per un massimo di 46,48€ per le spese effettuate sul territorio nazionale e per un massimo di 77,47€ per trasferte all’estero. Entro questi massimali il costo è totalmente deducibile.

Buoni pasto e indennità di trasferta: quando sono compatibili?

Tendenzialmente l’erogazione dei buoni pasto è compatibile con l’erogazione di un’indennità di trasferta. I due benefit hanno funzioni diverse e trattamenti fiscali diversi per cui non sussiste nessun limite alla loro erogazione in contemporanea.

I buoni pasto fanno parte della retribuzione del dipendente come benefit aggiuntivo, spesso la loro erogazione è prevista dai CCNL o da accordi individuali e vengono versati per ogni giorno lavorato. Il luogo di lavoro non incide sulla possibilità di erogazione del buono. Ad esempio, anche i dipendenti in smart working hanno diritto a ricevere il buono pasto.

Anche se la legge non impedisce l’erogazione dei buoni pasto in giornate lavorate lontano dalla sede abituale, ciò non significa che vadano per forza distribuiti. Il datore di lavoro stesso può definire una propria normativa interna che stabilisce che l’erogazione dei buoni pasto avviene solamente durante le giornate in presenza nella sede abituale.

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Pausa pranzo obbligatoria: ecco come è regolata dalla legge

Pausa pranzo obbligatoria: ecco come è regolata dalla legge

I dipendenti, durante l’orario in cui svolgono le proprie attività lavorative, hanno diritto ad un periodo di riposo in cui possono rilassarsi e consumare il pranzo. Infatti, la pausa pranzo è obbligatoria per tutti coloro che superano le 6 ore di lavoro giornaliere.

Continua a leggere per scoprire la durata minima della pausa pranzo obbligatoria, in quali casi è prevista la retribuzione o l’erogazione dei buoni pasto e anche come funziona per le pause caffè.

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La pausa pranzo è obbligatoria? Ecco cosa dice la legge

La pausa pranzo è regolata dal dlgs n. 66/2003 che la indica come obbligatoria e come un diritto del dipendente dopo 6 ore di lavoro continuative. Dunque, un dipendente non può lavorare per più di 6 ore di fila senza prendere una pausa per consumare un pasto. Tendenzialmente però, almeno per i lavori d’ufficio che hanno una durata di 8 ore giornaliere, la pausa pranzo è concessa dopo le prime 4 ore di lavoro.

Pausa pranzo soppressa: il dipendente ha diritto agli straordinari?

Da un punto di vista legale, nel caso in cui il datore di lavoro chiedesse di rinunciare alla pausa pranzo per effettuare degli straordinari il dipendente non è tenuto a farlo. Il Ministero del Lavoro ha chiarito che la pausa pranzo è obbligatoria e che va goduta in maniera continuativa. Qualunque tentativo da parte dell’azienda di far rinunciare il lavoratore alla propria pausa pranzo non trova applicazione nella normativa.

Tuttavia il dipendente che volontariamente decide di accettare a rinunciare alla pausa pranzo quando richiesto ha diritto ad essere retribuita come straordinario. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza n. 21325/2019 conferma che per una pausa pranzo non goduta, anche nel caso in cui vengano erogati buoni pasto spendibili fuori dall’orario lavorativo, il datore di lavoro debba retribuire questo tempo aggiuntivo come straordinario.

Durata pausa pranzo obbligatoria

Il decreto citato precedentemente non si pronuncia in merito alla durata della pausa pranzo obbligatoria. Sarà il datore di lavoro a stabilirne la durata a seconda delle esigenze produttive e organizzative dell’azienda. Solitamente la durata della pausa pranzo non supera mai le due ore e, le durate più comuni sono mezz’ora per gli operai e un’ora per gli impiegati.

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 In quali casi la pausa pranzo è retribuita?

Abbiamo già visto il caso della pausa pranzo non goduta che deve necessariamente essere retribuita come straordinario, ma come funziona nel caso di una pausa pranzo goduta? In quali casi questa può essere retribuita?

Il datore di lavoro, nel caso di una pausa pranzo goduta da dei lavoratori che hanno un orario spezzato (es: 8 ore giornaliere 9:00-18:00 con un’ora di pausa pranzo dalle 13:00 alle 14:00) non è tenuto a retribuire la pausa. Questo perché tale lasso di tempo non è considerato di lavoro effettivo. Quando l’orario di lavoro è continuativo (es: 8 ore giornaliere dalle 8:00 alle 16:00) allora la pausa pranzo è compresa nella retribuzione.

In ogni caso, l’azienda può decidere di erogare ai dipendenti un indennizzo o un servizio di mensa, cioè un importo giornaliero che copra i costi del pranzo. Tale servizio di mensa o sostitutivo di mensa può essere riconosciuto nei seguenti modi:

Come funziona per la pausa caffè?

Oltre alla pausa pranzo obbligatoria, i lavoratori hanno diritto anche ad altre tipologie di pause durante la giornata, come la pausa caffè. Da notare che la pausa caffè non può coincidere con l’inizio o la fine del proprio turno.

La legge esplicita che nel caso l’orario di lavoro sia di massimo 6 ore, allora i dipendenti possano staccare per almeno 10 minuti. Questa norma però fa un’eccezione per i videoterminalisti, cioè coloro che per almeno 20 ore alla settimana lavorano davanti ad uno schermo. Dunque, non solo coloro che utilizzano un computer, ma chiunque debba stare davanti a degli apparecchi dotati di video e monitor. Per questa categoria di lavoratori viene prevista una pausa di 15 minuti ogni due ore passate davanti ad uno schermo.